Museo Apparente: Marco Zezza – Prime luci dell’alba

Posted on 29 marzo 2012

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Se qualcosa non muore non può nascere altro è il titolo emblematico di uno dei collage in mostra, ma allo stesso tempo è una dichiarazione di poetica dell’artista. Il progetto Prime luci dell’alba come gran parte dei lavori di Marco Zezza ha un legame fortissimo con il suo tempo e la condizione politica che stiamo vivendo. L’arte al tempo della crisi – più grave quella epistemica che quella economica – per Marco Zezza deve necessariamente assumersi le responsabilità di un ruolo nodale all’interno della società.

L’artista storicamente è il soggetto critico della città1 e come tale Marco Zezza rivendica alla sua azione una carica energetica capace di incidere nel presente. Infatti, l’artista confida nel processo di rigenerazione spirituale oltre che estetico che l’arte, radicata così nella vitadell’umanità intera, può innescare.

E’ un processo trasformativo analogo a quello che compie l’artista creator che, in connessione profonda tanto con la natura che con il sociale, progetta una nuova condizione di socialità. Marco Zezza scava in una memoria italica alla ricerca del momento in cui l’uomo aveva stabilito con la natura e con il naturale un rapporto diretto, ma accosta alle immagini di un passato etrusco, la mitografia degli indiani d’America e le narrazioni di un passato recente in cui il mito del progresso era solo un aggiornamento tecnologico di un deciso radicarsi alla terra.

La distanza che separa l’artista da questo modello, nient’affatto ideale ma conosciuto empiricamente nell’esperienza delle persistenze che rintraccia nella contemporaneità, non produce smarrimento, ma desiderio e progetto. In questi momenti così distanti nel tempo e nello spazio

 

Marco Zezza riconosce un uomo universale e singolare e il persistere di un sentimento che centra l’individuo in una collettività naturale e sociale, che tiene insieme i due caratteri dell’esistenza senza che venga a prodursi con il conflitto e con la prevaricazione di un polo su un altro l’annientamento e la rimozione dell’uno, ma, invece, una condizione di simultaneità e di inclusione.

Il progetto espositivo dell’artista così ricompone gli opposti, gli oggetti di prelievo e le storie differenti in narrazioni plurime. Solamente attraverso il collage poteva farlo, cioè attraverso quel procedimento che l’avanguardia storica ha assunto a dignità di medium, che già implicitamente nei meccanismi che lo producono e in quelli estetici che attiva, propone una riprogrammazione utopica del mondo.

 

Il collage, infatti, permette all’artista, dell’avanguardia quanto a quello della nostra più stretta contemporaneità, di riscrivere con differenti elementi, essi stessi portatori di un significato proprio, una nuova narrazione che non cancella la memoria pregressa. Infatti se «l’opera non è più immagine di una totalità formata in tutte le sue parti dalla soggettività dell’artista»2, scrive il critico letterario tedesco Peter Bürger nel celebre saggio Teoria dell’avanguardia, registra la frammentazione del reale.

Nel caso dei papiers collés il procedimento che sminuzza i libri della Storia d’Italia dell’inizio del ‘900, le riviste mediche degli anni ’10 e le pubblicazioni antiche appartenute alla famiglia dell’artista culmina nella riorganizzazione di tutti questi tasselli in una griglia geometrica.

 

La griglia, elemento strutturale e insieme simbolico del modernismo a cui Rosalind Krauss dedica un saggio apparso per la prima volta nel 1979 sulla rivista “October” annuncia la volontà di silenzio dell’arte moderna, la sua ostilità nei confronti della letteratura, del racconto e del discorso.


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